Eugenio Corecco un Vescovo e la sua Chiesa: Volume 2
Compassione per la sofferenza del suo popolo
Capitoli
Qual è il motivo per cui bisognava raccogliere gli scritti pastorali di Eugenio Corecco, Vescovo di Lugano, nel decimo anniversario della sua morte?
É assolutamente indispensabile dire che è un segno evidente e chiaro che questo testimone ha ragione! Questo testimone dice la verità! La verità su Dio, cioè che Egli è, che Egli, in Gesù Cristo, è l’Emmanuele: il Dio-con-noi, il Dio-con-l’uomo.
Monsignor Corecco rende testimonianza su Dio, che ha voluto venire al mondo a Betlemme e ha voluto rivelarsi come Dio-per-l’uomo, e rimanere in questo modo nella Chiesa.
Eugenio Corecco «preso fra gli uomini» (Eb 5,1) ha assunto la partecipazione al sacerdozio di Cristo ed è ritornato in mezzo agli uomini – dall’inizio e fino alla fine – come educatore dei giovani e, in seguito, ancora fino alla fine, come pastore: sacerdote Vescovo.
Stando tra la gente sia giovane che adulta, era insieme a loro il cristiano fervente ed appassionato e nello stesso tempo egli era per loro l’educatore, il pastore, sempre il mistagògo: pronto ad introdurre gli altri nel Mistero di cui lui stesso partecipava e viveva. Non governava e non aveva le ricette pronte per scoprire il Mistero, ma era al suo servizio.
Si univa a quelli che camminavano lungo la strada, diventando il compagno di viaggio, un pellegrino anche lui. Era sempre in grado di adeguarsi al ritmo dei passi della vita degli altri, portando in quel ritmo la fede; la fede nel Vangelo, l’affidamento al Vangelo. Rianimava lacommunio del Cristo e degli uomini, mostrava come fare per accettare sempre più fedelmente il dono della comunione liberante. Cristo mandava don Eugenio sulle strade della vita degli uomini sia nella Chiesa sia nel mondo, perché l’avvenimento pasquale di Emmaus potesse durare: Cristo che continua ad accompagnare i suoi discepoli e per loro diventa l’Eucaristia.
Parlo dell’unione intrinseca, interiore, dell’uomo educatore e pastore, che ha saputo portare sempre in questa unione anche il suo farsi servo della scienza e della cultura. Ha donato tutte le sue capacità nell’insegnamento e nell’attività scientifica nel campo del Diritto Canonico e alla sua nuova codificazione, anzi ha sacrificato tutto se stesso al servizio dell’intelletto e della fede. La fede in Cristo e nella Sua Chiesa cercava la ragione, fides quaerens intellectum, e la necessità di comprendere l’uomo nella sua vita sociale lo spingeva a ricercare la fede, intellectus quaerens fidem.
Tutto questo si realizzava nel dialogo tra la fede e la cultura. Monsignor Corecco creava tale clima di cultura, in cui sempre rimaneva aperto lo spazio a quel dialogo. Per questo ha voluto una Facoltà di Teologia a Lugano.
Amava la Chiesa che serviva: la Chiesa universale con il “Pietro dei nostri tempi”, il Santo Padre. Amava tantissimo la Chiesa che vive a Lugano, le sue comunità, le sue famiglie, le sue parrocchie, i suoi giovani e adulti e i suoi sacerdoti.
Una domanda sorge spontanea: quale era l’esperienza esistenziale di quell’uomo il cui nome era Eugenio? É questa la domanda circa il suo misterioso incontro con Dio, il Dio che è diventato il suo Dio-Emmanuele e dono, che ha superato tutti i doni e tutti i tesori della natura.
Non è forse vero che il “segreto regale” viene svelato nel momento più oscuro della vita?… che la luce risulta dalle tenebre di questa notte che rimane sempre il mistero della croce? É stato così anche per don Eugenio. Questi sono stati gli anni dell’ultima malattia. La Croce diventava sempre più una realtà distruttiva e creatrice e nello stesso tempo.
Il primo segno dell’Alleanza che Dio aveva stipulato con l’uomo, in Abramo, è stato l’arco sulle nubi, l’arcobaleno. Il segno dell’Alleanza definitiva che Dio ha stabilito con l’umanità intera è la Croce di Cristo. Da quel momento «la Croce è per me l’arcobaleno, il segno dell’Alleanza». Dio infinito è diventato un “essere finito” e in Cristo l’amore crocifisso. Egli, Vimmensamente grande, oltre tutte le misure, ha fatto di se stesso una misura; l’irraggiungibile è diventato la via al Padre, a Colui che è la dimora. Cristo ha dato la vita perché il mondo avesse la vita. Se fossi io per me stesso una misura e un limite, cadrei e mi spaccherei sul fondo della mia limitatezza insieme con tutta la mia costruzione interiore, cieco e sordo a tutto quello che non fa parte di me.
Forse ha vissuto questo e a questo ha pensato il Vescovo Eugenio quando la malattia frantumava e consumava la costruzione della sua colonna vertebrale, però nello stesso tempo cresceva “l’uomo interiore” per il quale la Croce di Cristo e la sua propria croce sono il segno dell’Alleanza pasquale. Nel tormento si compiva la fedeltà a Cristo che veniva per prendere con sé il Suo amato Eugenio.
Forse così pensava don Eugenio, con la fiducia nella promessa che quando sarebbe partito, Cristo non ci avrebbe lasciati soli come orfani…
Sono venuto per essere con voi e per esprimervi la tenerezza e la solidarietà umana e cristiana di tutta la popolazione del Cantone.
Anche il nostro cuore è stretto nella morsa del dolore e nessuno vorrebbe che il vostro dolore si trasformasse in disperazione.
S. Paolo afferma che è cristiano solo colui che sa soffrire con chi soffre e piangere con chi piange.
Di fronte a Lazzaro morto anche Gesù è scoppiato in lacrime. Ha provato lo stesso sentimento funesto, che la morte esercita sul nostro cuore umano.
Se accettiamo totalmente di soffrire con voi, superando ogni tentazione di facile indifferenza, è perché siamo persuasi, che questo nostro patire assieme a voi è in grado di sostenervi, per tenere lontano dal vostro cuore ogni pensiero di disperazione.
Ieri mattina il Ticino si è risvegliato, scoprendosi diverso.
Ha capito che quanto succede nelle grandi metropoli, può succedere anche da noi.
E’ avvenuto un disincanto: quello di credere che certe espressioni supreme del male, non avrebbero mai potuto prendere dimora in mezzo a noi.
Questo male lo possiamo vincere solo con la solidarietà reciproca. Abbiamo bisogno tutti di cambiare vita. Il primo modo di farlo è quello di stringerci tutti, ogni volta, attorno a quelli che soffrono. Noi ci stringiamo attorno a voi con l’affetto, con la preghiera e con una parola, che sgorga dalla nostra fede cristiana più profonda.
Consolare significa saper dire a chi versa nel dolore una parola di aiuto. Una parola che sappia riproporre un modo di affrontare il male e il dolore, che accompagnano sempre la vita umana.
Il male e il dolore non sono eliminabili dalla nostra vita. Se vi ho proposto come riflessione il testo preso dal libro del Qoèlet è proprio perché constata che sotto il firmamento della vita umana c’è sempre:
«C’è un tempo in cui si vive e un tempo in cui si muore,
un tempo in cui si gioisce e un tempo in cui si soffre,
un tempo in cui si ride e un tempo in cui si piange» (cfr. 3,2-4)
Non esistono ragioni umane per spiegare questi contrasti della vita. Il Profeta, però, sa che sopra il firmamento c’è Qualcuno che tutto conosce, per cui, il mondo un senso deve averlo.
Ci da una testimonianza di fede in Dio, che è tanto più eroica, quanto più la ragione umana è messa a dura prova.
Anche la nostra ragione, di fronte alla strage, che avete e abbiamo subito, è messa a dura prova. Come è stata messa a dura prova di quella degli astanti, che vedendo Gesù, incapace di trattenere i singhiozzi, si erano chiesti: «Costui che ha aperto gli occhi al ceco non poteva far sì che questi non morisse?». (Gv 11,37)
La risposta di Gesù è stata chiara: «lo sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà in eterno». La fede non ci mette al riparo da nessuna disgrazia, salvo il miracolo, ma ci aiuta a superarle.
Vivere in eterno significa non cadere nella disperazione, perché, anche se moriamo nel nostro corpo, la nostra persona mantiene tutto il suo significato. Cristo, che è stato straziato sulla Croce, ci coinvolge nella sua risurrezione.
Risorgiamo dopo la morte, ma possiamo risorgere dal dolore durante la vita. Tutti possiamo risorgere dal dolore, anche quando è immenso, come il vostro e il nostro, se riusciamo a capire, poco a poco, quale significato una disgrazia può avere per la nostra vita.
Il Signore dandoci il dono preziosissimo della vita, ci pone anche di fronte al problema della morte e ci chiede di scegliere da che parte stare.
Lo chiede a ognuno di noi, ma lo chiede anche alla società.
Chiede a ognuno di noi di dare un senso al nostro vivere, al nostro lavorare e al nostro amare. La morte ci richiama a queste verità fondamentali.
L’uomo risorge ogni giorno dal male e dal dolore, quando è capace di dare un senso positivo al suo destino terreno.
Anche la nostra società, che sta insensibilmente sprofondando nell’egoismo, nell’indifferenza verso gli altri, nel qualunquismo, nell’abuso del potere, nel materialismo, nella violenza, nell’ ostracismo degli estranei, nella erotizzazione della vita privata e pubblica, nella soppressione della vita umana, nella sete di consumo e di benessere e nella dimenticanza di Dio; la nostra società, di fronte a una tragedia di queste proporzioni e a un dolore collettivo così immenso deve chiedersi come saper risorgere.
Le tragedie non sono il frutto solo della mente insana di pochi individui, ma il frutto avvelenato di un indebolimento collettivo delle coscienze e di un comportamento immorale generalizzato.
Cari fratelli e sorelle nel Signore. Tutti dobbiamo sentirci implicitamente colpevoli di quanto è accaduto.
lo vi invito a pregare per le vittime di questa strage, per coloro che sono sopravvissuti schiacciati sotto il peso del dolore, per i loro familiari, e anche per chi l’ha commessa.
Vi invito a pregare il Signore e la Vergine Addolorata, perché aiutino loro, ma aiutino anche noi, a capire cosa dobbiamo fare della vita, che abbiamo ricevuto come dono.
Si può risorgere da una tragedia attraverso la conversione personale e collettiva.
Il dolore purifica il nostro cuore, la preghiera salva la nostra esistenza in Dio, la fede nella nostra risurrezione in Cristo, che attraverso il Suo Vangelo da senso al nostro vivere, ci infonde la speranza per poter continuare ed essere migliori.
La memoria dei morti è una costante fissa della storia dell’umanità. Tutti i popoli, tutte le culture e civiltà, che si sono succeduti fin dagli albori della presenza dell’uomo sulla terra, hanno previsto un rito per la sepoltura e per il culto dei loro defunti.
In questo fatto incontrovertibile emerge, secondo forme diverse, l’insopprimibile coscienza che l’uomo ha di sopravvivere, nell’aldilà, alla propria esistenza terrena.
Non possiamo ridurre questo fenomeno ad un’espressione sentimentale. Esso tocca ed esprime la coscienza della nostra natura umana.
E importante rendersi conto che solo l’essere umano, a differenza di tutti gli altri esseri, è capace di fare la memoria delle generazioni che l’hanno preceduto.
La persona umana può essere definita osservando molte delle sue caratteristiche: la sua capacità di amare, di pensare, di entrare in rapporto personale con gli altri, di lavorare, di ricordarsi del passato, di progettare il suo futuro. Ma l’uomo può essere definito anche daI fatto di essere l’unica creatura vivente, che sente il bisogno ed è capace di fare la memoria delle generazioni che l’hanno preceduto.
Attraverso il rito religioso noi esprimiamo l’affetto che ci lega alle persone più care, così come la riconoscenza che sentiamo dentro di noi per quello che hanno fatto.
Il culto dei defunti esprime, non solo la certezza psicologica della nostra sopravvivenza personale, ma anche la certezza della sopravvivenza degli altri. La dignità ultima della nostra persona è legata al fatto della sua indelebile sopravvivenza. L’uomo è l’essere che, dopo essere stato generato alla vita, non scompare più nel nulla. L’umanità, in moda esplicito e implicito, ha sempre creduto e crede all’immortalità della persona umana.
Noi cristiani commemoriamo i nostri defunti, preghiamo per loro – e li preghiamo perché ci aiutino -, nel solco della migliore tradizione della Chiesa, perché sappiamo e crediamo che sono persone viventi.
Per questa certezza abbiamo un punto di riferimento preciso: quello della persona di Cristo. Sappiamo di partecipare al suo stesso destino, quello della Sua morte e della Sua risurrezione.
Cristo, Figlio di Dio, diventando uomo, lo è diventato fino ad accettare di morire come ogni uomo. Il cristiano, credendo nell’umanità di Cristo e nella sua risurrezione, crede inevitabilmente anche alla propria risurrezione personale.
Nella nostra professione di fede affermiamo, infatti, di credere nella risurrezione dei morti.
La risurrezione è diversa dalla sopravvivenza dell’anima nella quale l’umanità ha sempre di fatto creduto. Non si tratta solo dell’immortalità dell’anima, ma del fatto che la persona umana, in forza della Risurrezione corporale di Cristo, si ricompone nella sua integrità totale, attraverso la risurrezione del corpo.
Anche il mistero dell’ Assunzione della Madre di Dio in cielo con il suo corpo ci conferma nella fede della nostra personale risurrezione dalla morte e della risurrezione dai morti delle persone che ci sono più care.
In questo fatto fondamentale della nostra fede, quello della risurrezione, sta l’essenza della consolazione cristiana.
Consolazione perché in mezzo al dolore provocato dalla separazione violenta o non violenta delle persone che ci sono più care, abbiamo la certezza di rincontrarle nell’altra vita, quando anche noi risorgeremo. Questa speranza, spesso solo confusa, ha comunque mosso l’umanità fin dagli albori della sua esistenza. Ha provocato in tutti i tempi il formarsi del culto per i morti. Solo noi umani abbiamo questa speranza, ed è proprio questa speranza che conferisce dignità alla nostra persona.
Sono trascorsi 25 anni dalla tragedia di Robiei. 25 anni trascorsi per tutti voi presenti – parenti, amici, datori di lavoro e colleghi – nel segno di un dolore che ha marcato profondamente la vostra vita quotidiana.
Non siamo qui a celebrare un evento tragico, in quanto semplice evento materiale. Ci siamo riuniti per fare la memoria di persone che non sono vive solo nel nostro affetto, ma sono vive nel mistero della vita di Dio; che sono vive come è vivo Cristo, il Figlio di Dio, in cui crediamo; come è viva la Vergine Assunta, la cui persona appartiene al nocciolo insopprimibile della nostra religiosità e della nostra identità cristiana.
Certo, il tempo ha lenito il dolore; ciò che il tempo non potrebbe lenire e non ha lenito è invece il nostro affetto e la nostra riconoscenza. L’affetto del vincolo familiare e dell’amicizia; la riconoscenza di chi a distanza di 25 anni sa che il lavoro, probo ed indefesso, di questi uomini ha contribuito a segnare il benessere del nostro Cantone.
Ciò che il tempo non può estinguere è inoltre la nostra fede nella risurrezione di Cristo, nella risurrezione dalla morte di quelle vittime a noi così care e nella nostra risurrezione personale.
Celebrando questa Eucaristia ascoltiamo perciò quanto San Paolo cercava già di inculcare nella coscienza dei primi fedeli, agli inizi della predicazione cristiana. L’abbiamo letto nei testi di questa liturgia: «fratelli e sorelle, se siamo completamente uniti a Cristo che come noi è morto, pur essendo Figlio di Dio, saremo uniti a Lui anche nella Sua risurrezione» (cf. Rom. 6,5). E il nostro Battesimo che lega in questo modo il nostro destino personale al Suo.
La fede in questo mistero di Cristo, nel quale siamo immersi, se sappiamo esprimerla oggi, celebrando il 25° anniversario di un avvenimento che ci ha sconvolti e ha segnato la nostra vita, è capace di lenire definitivamente dal nostro cuore quelle tracce di sofferenza che ancora vi si annidano.
Facciamo la memoria di 17 caduti, la facciamo pregando per loro, ma la facciamo anche per gustare quanto è grande e incomparabile la consolazione del nostro cuore se fossimo capaci, in Cristo, di credere nella loro e nella nostra risurrezione.
Tutto il Ticino e tutta la comunità diocesana guarda a voi, cari congiunti, e a queste sei bare con profonda emozione.
Una tragedia quasi concomitante ad un’ altra che ha appena avuto il suo epilogo in altre tre chiese e cimiteri della nostra terra.
Nove persone il cui destino è stato repentinamente cambiato, infrangendo, ad un tempo, il cuore delle persone più intimamente ad esse legate, ma anche l’incanto di tutto un Ticino che vive progettando nel lavoro un’esistenza possibilmente vissuta senza sofferenze e dolori.
Non è facile parlare al cuore di persone in cui, il dolore e lo smarrimento si sono insediati come l’ombra della notte quando prende possesso e si installa sulle opere umane, allontanando la luce del giorno.
Se vi rivolgo la parola, per insinuare nel vostro cuore un raggio di speranza e di luce, lo faccio nella certezza che quanto Cristo ci dice nel Vangelo di questa liturgia dei defunti è rivolto a tutti. Non è solo un monito a chi vive, affinché vigili nei confronti della morte, ma è un’esortazione rivolta anche a chi, come noi tutti, è colpito dal dolore e magari dalla tentazione della disperazione.
«Siate vigilanti e tenete le vostre lampade accese», il cuore aperto, per capire, quando la morte e il dolore ci chiamano inesorabilmente il significato dell’esistenza e ella presenza del mistero di Dio nel nostro destino.
Essere vigilanti, significa prendere coscienza del senso della nostra vita umana. Significa renderci conto di noi stessi, di quello che siamo, della nostra appartenenza a qualcuno che è altro rispetto a noi, infinitamente Altro.
Essere vigilanti dei momenti di gioia, vuoI dire che la vita per quanto piena e ricca di ricompense non ci appartiene, al punto di poter disporre in modo autonomo del suo possesso.
Essere vigilanti nel dolore, vuol dire che dobbiamo vivere la sofferenza senza credere che essa possa soffocare, o estinguere in noi, il significato della nostra vita e della nostra fondamentale dipendenza da Dio, al punto da poterci ribellare di fronte ad un repentino distacco fisico, alla rottura affettiva, alla fine di un dialogo nell’amore e nella responsabilità reciproca.
Anche nel dolore dobbiamo cercare di tenere accese le lampade della consapevolezza, che il destino della nostra persona, come quello dei nostri morti, no ci appartiene.
La verità ultima sull’uomo è data dal fatto della appartenenza della nostra persona a Dio, nella vita e nella morte.
La vigilanza cui Cristo ci richiama sta nel non permettere che si estingua questa consapevolezza, per saper intravedere, anche nel dolore, la presenza di Dio nel nostro destino, come Cristo stesso ha saputo riconoscere la presenza del Padre e ha saputo incontrarlo sulla Croce.
«Nelle tue mani, Padre, affido il mio spirito». Cristo è il primogenito, l’emblema di tutti gli uomini, che dalla croce ci mostra come dobbiamo vivere nel momento dell’abbandono, della sofferenza e del dolore. Non perdere la consapevolezza della nostra appartenenza, della appartenenza della nostra persona a Dio. Questa è verità fondamentale della nostra fede. E’ per questo che professiamo di credere nella risurrezione dei morti.
Se la nostra persona, con il suo destino, non appartenesse a Dio, non avrebbe senso credere alla risurrezione dei morti.
Una tragedia vissuta censurando la consapevolezza della presenza del Padre che ci ha creati e del Cristo che ci ha redenti dalla colpa – anche se fosse difficile avvertirne immediatamente le implicanze – una disgrazia che estinguesse in noi la certezza della appartenenza della nostra vita al mistero di Dio, che si è rivelato attraverso il mistero della croce, si risolve in tragedia umana senza significato.
Non possiamo accettare come cristiani la posizione del Foscolo, benché tocchi i vertici della poesia, e ha contaminato tutta la cultura funeraria moderna, quando afferma che anche «la speme (la speranza), ultima Dea fugge i sepolcri e involve tutte cose l’oblio della sua notte». Il cristiano crede che non c’è oblio per se stesso, perché nella vita terrena e nella morte l’uomo sussiste nella forza, che Dio ha partecipato al suo essere e alla sua persona, fatta a immagine e somiglianza di Dio. Essere vigilanti significa perciò saper aprire il cuore a Dio per recuperare la coscienza della appartenenza della nostra persona e della nostra vita, proprio nel momento in cui è difficile capire o comprendere il senso e l’origine della tragedia che si abbatte sulla nostra esistenza.
Nessuno può avere la pretesa di capire, da subito, il significato e l’origine di una disgrazia, la ragione di un dolore, che sconvolge l’esistenza delle persone scomparse e di quelle rimaste.
Il senso può emergere solo più tardi, quando una persona riesce a capire il cambiamento che il Signore le ha chiesto, permettendo l’avverarsi di circostanze in ultima analisi inevitabili.
Se Cristo ci richiama ad essere vigilanti nei momenti di vita, gioia e soddisfazione, perché la morte non ci sorprenda nella distrazione rispetto al nostro destino ultimo, lo stesso Cristo ci richiama oggi in un momento di immenso dolore, personale e collettivo, a capire meglio noi stessi, a riflettere su quello che nella nostra vita può e deve ancora cambiare, perché il dolore che accompagnerà tutti, a lungo, e la disgrazia che turberà tenacemente la nostra memoria, non rimangano fatti stravolgenti, tragedia senza significato positivo per la nostra vita.
Scoprire Dio è il primo significato dell’uomo.
La solidarietà umana e la tenerezza della comunione cristiana con la quale tutti intendiamo accompagnare voi congiunti, in questo momento di smarrimento negli affetti, sono il pegno di quella risurrezione che ci auguriamo possa farsi strada poco a poco nel vostro cuore.
Cari fratelli e sorelle nel Signore,
vi confesso che avrei preferito se nessuno mi avesse mai posto questa domanda, che invece mi è stata rivolta, quasi con violenza e con la pretesa che il Vescovo potesse e dovesse darle una risposta: Perché è avvenuta la morte di Carlo Felice?
In realtà è una domanda che anch’io, come tutti voi, sento emergere, insopprimibile, nel profondo della mia coscienza.
Oggi, nessuno, neppure il Vescovo, è in grado di dare una spiegazione della sua tragica morte, perché rimane nascosta nell’incommensurabile mistero di Dio. Potrebbe capitare che gli eventi futuri della famiglia, degli amici, delle persone o delle istituzioni, cui Carlo Felice dedicava con amore le migliori energie della sua intelligenza e della sua vita, lascino trapelare un’ipotesi di risposta, ma, per il momento, dobbiamo accontentarci di credere che, se Dio ha permesso la sua morte e chiede a tutti noi di viverla con grandissima sofferenza e senza ribellione interiore, una ragione esiste.
Qualcuno potrebbe pensare alla semplice fatalità, ma è certo che il destino di una persona non può mai essere subordinato all’irragionevolezza della pura casualità. La persona umana “è l’unica creatura che Dio ha voluto per se stessa” (GS 24). Nel suo vivere e morire non può perciò dipendere dal puro caso. La nostra dignità umana dipende perciò dal fatto di essere stata creata da Dio, a sua immagine e somiglianza. Ne consegue che la nostra vita e la nostra morte sono legate in ogni istante a Dio, presente dentro di noi, come immagine di noi stessi.
Altri potrebbero pensare che Dio abbia voluto direttamente la morte di Carlo Felice, come potrebbe volere la nostra, in ogni istante.
Se di volta in volta, secondo le persone e le circostanze, fosse ammissibile credere che Dio possa volere la morte di una persona oppure l’eccidio di tutto un popolo, come in Rwanda, allora Dio apparirebbe inevitabilmente agli occhi della ragione umana come un essere giusto oppure ingiusto, a dipendenza delle circostanze, delle situazioni e delle nostre passioni.
Anche questo secondo modo di immaginare il rapporto di Dio con noi uomini è profondamente sbagliato. Dio, infatti, per definizione stessa è, ed è sempre giusto. Gli “dei” volubili nelle loro decisioni, arbitri nelle loro preferenze, ingiusti e vendicativi, possono appartenere solo al mondo della mitologia, non alla sfera della ragione e dell’autentico pensiero umano.
Il Libro della Genesi ci insegna, che la morte non è frutto della volontà di Dio Padre Creatore, che ha fatto l’uomo immortale, bensì la conseguenza intrinseca del peccato. All’origine della morte sta perciò il peccato commesso dall’uomo stesso. La ribellione dei progenitori nei confronti di Dio ha minato l’uomo nella sua stessa esistenza; lo ha reso soggetto alla violenza della morte corporea. Ha posto la morte, con tutta la sua drammaticità e forza distruttiva, come condizione previa del passaggio della persona umana, da questa vita terrena a quella dell’eternità.
Gesù stesso ha affrontato il momento devastante della morte corporale, per poter assumere tutti noi nel fenomeno glorioso della Sua risurrezione. Ci ha fatti partecipi della Sua risurrezione, dalla quale noi tutti, come Lui, saremo restaurati anche nella nostra corporeità umana. Gesù risorto è apparso agli Apostoli ed ai Discepoli, proprio per mostrare a tutti le conseguenze rigeneratrici della Sua risurrezione.
Nella fede sappiamo così, che anche noi saremo ricostituiti, come Cristo stesso, nello splendore della nostra umanità, anche corporale; un’umanità paragonabile a quella che il Padre aveva voluto fosse, prima che con il peccato originale l’uomo la compromettesse.
Se la morte è la conseguenza del peccato, di quello originale, nel cui solco si pone come conseguenza ogni nostro peccato personale, ciò significa che il sopravvenire del fenomeno della morte, nel nostro destino, è il frutto della libertà dell’uomo. Fin dall’origine il peccato, e perciò la morte, si sono posti come conseguenza della libera scelta dell’uomo.
La morte non è pertanto la conseguenza di un atto positivo di volontà di Dio, bensì la conseguenza del peccato umano: un atto posto dall’uomo in forza della sua libertà.
Poiché la morte è il frutto avvelenato ed amaro della libertà dell’uomo, neppure Dio può sottrarci a questo momento drammatico, che appartiene al nostro destino quotidiano.
Attraverso la risurrezione del Figlio, il Padre ci ha salvati, concedendoci la risurrezione, che restituisce alla nostra persona la possibilità di vivere l’aldilà, non solo secondo lo spirito, ma anche, come in Cristo, secondo la compiutezza della nostra corporeità; secondo la totalità della nostra persona.
Malgrado queste risposte della fede e della ragione, resta tuttavia una domanda cui il cristiano non può rispondere: perché Dio, che potrebbe impedirlo, permette che la morte di una persona sopraggiunga inaspettata, in circostanze non corrispondenti al corso normale e prevedibile della vita?
Sappiamo che la grazia ed il miracolo sono possibili, ma ciò che non possiamo spiegare è perché a volte essi sono concessi ed a volte Dio non ce li concede.
Con certezza sappiamo soltanto che la vita umana non è guidata da un destino cieco, anonimo e irrazionale, ma si svolge nell’ambito della Provvidenza di Dio. Non dobbiamo però pensare alla Provvidenza solo come ad un intervento di Dio, che appaga un nostro desiderio e le nostre aspettative di benessere. L’idea di Provvidenza – intesa solamente come aiuto immediatamente gratificante di Dio – così come ci ha abituato a pensare ad esempio Alessandro Manzoni, è imprecisa e riduttiva. Esiste anche questa forma di Provvidenza, ma essa è solo l’espressione di una presenza di Dio molto più globale nella trama della nostra esistenza; una presenza che per lo più non riusciamo a decifrare immediatamente con sicurezza.
Se viviamo con fede è possibile che un giorno i nessi inerenti alla morte di una persona, ed allo svolgersi della storia della sua famiglia e degli sviluppi di una realtà sociale, emergano progressivamente, fino a farci comprendere perché Dio abbia potuto permettere (o non abbia voluto impedire) tale dolore. Qualche volta tuttavia è possibile interpretare, a grandi linee, le connessioni nascoste che reggono l’intervento provvidenziale di Dio nella vita degli uomini.
Cari fratelli e sorelle nel Signore. Fatte queste premesse, cercherò di non sottrarmi ulteriormente al dovere di dare una risposta alla domanda che tutti oggi portiamo nel cuore e che si pone ogni volta che la morte di una persona sembra contraddire ogni criterio della ragionevolezza umana.
La morte di una persona non è mai la conseguenza di una fatalità cieca ed anonima, perché l’uomo non appartiene a un destino anonimo ed inafferrabile, ma ad un Dio personale, che ci ama intensissimamente.
La morte corporale non è mai la conseguenza di un atto positivo della volontà di Dio, perché essa è inerente al destino umano, come conseguenza del peccato e perciò della libertà dell’uomo.
Nel mistero della Provvidenza, che governa e regge la storia dell’umanità, la morte prematura di una persona può essere permessa da Dio solo in vista di un bene che malgrado le apparenze, è sempre superiore ai nostri desideri ed alle nostre aspettative mondane, perché Dio nella Sua Provvidenza può volere e permettere solo il bene di una persona, di una famiglia, di una società. Questo è vero anche se nell’immediato non riusciamo a capirlo e ad accettarlo.
Ne consegue che, per noi, l’essenziale non sta nella capacità di interpretare gli eventi che ci concernono, magari anche durissimamente, ma nella capacità di affidare la nostra persona a Dio, con la certezza incrollabile che Lui vuole sempre e comunque il nostro bene.
In questo senso risultano particolarmente appropriati i due testi che voi figli avete scelto per le esequie di vostro padre. Se è vero che Cristo, immagine visibile di Dio in mezzo a noi, in forza della Sua risurrezione è il nostro Salvatore, così da redimere la nostra vita anche dalle conseguenze devastanti della morte corporale; se è vero che Lui è il Redentore, che salva per l’eternità anche vostro padre e nel suo avvenire terreno anche la vostra famiglia; se crediamo che Gesù è il nostro Salvatore, allora niente ci può separare da Lui, neppure la morte; neppure quella di vostro padre.
Questa verità ci è ricordata da San Paolo, pure confrontato con mille dolori e tribolazioni, nel brano della Lettera ai Romani che avete scelto (8,32): Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada, la morte?
Questa intuizione, che nulla può essere così grave o importante per poterci separare da Cristo, l’avevano già avuta gli Apostoli, quando furono confrontati con la non intelligibilità umana dei discorsi di Gesù sul Suo corpo ed il Suo sangue: “chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (Gv 6,54). Molti tra i Discepoli, annota S. Giovanni, da quel momento incominciarono a tirarsi indietro, per cui Gesù rivolgendosi agli Apostoli, chiese loro: “Forse anche voi volete andarvene?” (Gv 6,67). Per tutti rispose San Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6, 67-68).
Se non ci faremo facile scudo con la credenza in una fatalità; se non ci ribelleremo a Dio, immaginandolo colpevole della disgrazia che ci ha colpiti; se crederemo alla incommensurabilità della Sua Provvidenza, e se resteremo uniti a Cristo nostro Salvatore nella fede e nell’affezione, prima o poi lo Spirito Santo ci farà capire quale significato di conversione personale la morte di Carlo Felice può avere, non solo per le persone che gli erano più care, la moglie ed i figli, ma anche per ciascuno di noi, che lo abbiamo amato e grandemente stimato.
Carissimi pellegrini,
il decorso attuale della convalescenza non mi permette di accompagnarvi fisicamente fino a Lourdes. Ci contavo, tanto che quasi fino all’ultimo istante ho sperato che i medici potessero darmi il loro consenso.
Con voi sono tuttavia con lo spirito e la mente, con l’affetto e la preghiera, con l’amicizia e la riconoscenza, con la memoria dei pellegrinaggi vissuti assieme e con la paternità che il Signore, scegliendomi come vostro vescovo, mi ha chiesto di esercitare nei vostri confronti.
Il grande pellegrinaggio diocesano del mese di agosto, che da quando è stato introdotto in Diocesi dal Servo di Dio il Vescovo Aurelio Bacciarini, è diventato una pietra miliare della vita religiosa popolare della nostra Chiesa particolare, si distingue da tutti gli altri pellegrinaggi, perché, con un gesto di grandissima gratuità spirituale e materiale, porta a Lourdes centinaia di ammalati appartenenti alla nostra comunità diocesana: fratelli e sorelle nella fede che, da soli, forse non riuscirebbero mai a recarsi sui luoghi dove Maria di Nazareth è apparsa al mondo per affermare che il Signore le aveva fatto il dono impensabile di nascere, unica creatura al mondo, senza peccato originale.
La Concezione Immacolata di Maria è il privilegio che ci mostra quanto Dio Padre abbia ritenuto importante e sublime la collaborazione di questa giovanissima donna all’opera della redenzione, iniziata appunto attraverso l’Incarnazione del Figlio di Dio nel suo grembo.
La presenza di ammalati e sofferenti in mezzo agli altri pellegrini che si prendono amorevolmente cura di loro è un segno che esprime in modo particolarmente eloquente l’essenza stessa della nostra esperienza ecclesiale. E’ un gesto di comunione che mostra che, se desideriamo seguire veramente il Signore, non possiamo esimerci dal farci carico del bisogno e della sofferenza degli altri fratelli e sorelle nella fede.
Nella malattia, con tutte le sofferenze fisiche e spirituali che l’accompagnano, si manifestano tutte le miserie e tutto il male iscritti nella nostra natura umana quale conseguenza del peccato originale. La malattia, infatti, è sempre un esempio, più o meno realistico ed immediato a seconda della sua gravità, della nostra morte.
Non è necessario che una malattia implichi un reale pericolo di morte perché uno possa fare l’esperienza che essa ne è sempre una profezia: ci fa capire, infatti, come si svolge nella nostra vita la dinamica della nostra morte.
In questi mesi, durante i quali sono passato attraverso l’esperienza di due interventi chirurgici importanti, con tutte le fasi pre e post operatorie, ho capito, come non mi era mai capitato, in che cosa consiste la dinamica della morte: nella progressiva perdita della padronanza su noi stessi, sul nostro corpo e sulla nostra mente.
Questa esperienza, che nessuno evidentemente vorrebbe fare, il cristiano dovrebbe riuscire a viverla come una grazia che gli fa il Signore, perché è un momento in cui Egli ci aiuta a capire, in anticipo sul momento vero della nostra fine terrena, chi siamo noi e chi è Lui, il Signore. Ci aiuta a capire se è vero che gli vogliamo bene e se è vero che siamo disposti, come diciamo innumerevoli volte nella preghiera del Padre Nostro, a fare la sua volontà.
Quando pensiamo alla nostra morte futura, spesso domandiamo al Signore, nella preghiera, la grazia di avere il tempo di essere pronti, di fare per esempio la grande confessione generale. I cristiani che desiderano morire di morte improvvisa in ultima analisi sono spesso persone la cui fede è molto superficiale.
In realtà, però, il problema è molto più ampio di quello di avere il tempo di domandare al Signore, prima della nostra morte, il perdono dei nostri peccati.
Il vero problema è quello di essere capaci di dire veramente il nostro “sì” al Signore che ci chiama a sé, infrangendo, inevitabilmente, tutti i progetti che noi abbiamo ancora sulla nostra vita. Dire di sì con sincerità profonda e senza sotterfugi.
Proprio prima che il Signore mi visitasse attraverso la malattia ho incontrato dei cristiani pii e praticanti, e tanto devoti da ricevere tutti i giorni in ospedale la Santa Comunione, morire con la disperazione nel cuore, perché erano incapaci di accettare la chiamata di Dio a partire per l’altra vita.
La capacità di accettare questa volontà di Dio, che si manifesta inevitabilmente al momento della nostra morte, non possiamo improvvisarla all’ultimo momento. La malattia e le sofferenze che hanno attraversato in questi mesi la mia vita, anche se probabilmente non hanno mai messo in forse la continuità della vita terrena, mi hanno comunque fatto capire quanto sia importante prepararci attraverso un lungo cammino al momento nel quale il Signore ci chiama a vivere accanto a sé nell’altra vita.
Anche Gesù nel Getzemani ha fatto questa esperienza drammatica: quella di dire il suo “sì” al Padre, riuscendo ad estirpare dal proprio cuore ogni radice di resistenza. Se è riuscito a farlo pregandolo, è solo perché aveva vissuto tutta la: sua esistenza avendo come unico criterio quello di compiere la volontà del Padre.
Nessuno di noi è esente dal fatto di dover passare attraverso questo momento drammatico. Dobbiamo perciò prepararci adesso, educandoci progressivamente a vivere la nostra vita, ripetendo nell’interiorità profonda di noi stessi, il nostro sì alla volontà del Signore; vivendo cioè la vita come risposta alla vocazione alla quale il Signore ci ha chiamato.
Una malattia può durare anche quasi tutta una vita e tra i nostri pellegrini non mancano quelli che hanno vissuto un lunghissimo periodo della loro esistenza nello stato di persone afflitte da un male. La malattia può colpire tutti: le persone anziane, quelle di mezza età e i giovani; può essere più o meno dolorosa con implicazioni familiari e sociali difficili e gravi da sostenere. L’unico elemento che è comune a tutte le malattie che meritano questo nome è quello di essere l’esperienza anticipata, in cui il Signore ci chiama a lasciare tutti e tutto su questa terra per seguirlo nell’altra vita, in seno alla comunione dei Santi.
Tuttavia, pur implicando diversi gradi di sofferenza, pur facendoci attraversare momenti di esperienza umana, sociale e familiare diversamente difficili da affrontare, pur apparendo come un fattore che tronca in modo diversamente crudele i progetti della nostra esistenza umana, tutte le malattie hanno un altro elemento comune, che è quello di essere anche una grazia che ci fa il Signore. Poiché, se sappiamo viverle bene, ci aiutano a capire con più profondità il significato della vita ed il significato della morte. La malattia ci anticipa, preparandoci, il momento supremo della nostra vita, che è quello della nostra morte, perché la morte corporale dà inizio ad un altro stato di vita definitivo ed eterno.
Grazie alle innumerevoli ed incessanti preghiere scaturite spontaneamente dal cuore di migliaia di fedeli, grazie alla preghiera comune organizzata nel corso delle celebrazioni liturgiche in tutte le nostre parrocchie, grazie all’affetto di cui mi sono sentito accompagnato lungo tutti questi mesi, grazie alle amicizie antiche e nuove riemerse per le iniziative di innumerevoli persone, mi è stato possibile vivere questi mesi di assenza e di sofferenza in modo particolarmente intenso, ciò che mi ha permesso di cercare e di ricercare, fino a scoprirlo, il significato che la malattia poteva avere in generale per tutti ed in particolare per la mia persona.
Se ho vissuto questo tempo, non solo come un tempo di dolore e di sofferenza, ma anche come un tempo di grazia, è senza dubbio merito dell’aiuto che tutti voi fedeli mi avete dato. Di ciò vi sono immensamente grato e prego il Signore che vi ricompensi con la sua grandissima generosità.
A voi pellegrini di Lourdes, che siete una porzione di quelle persone che mi sono state così profondamente vicine, vorrei rivolgere l’invito di guardare i pellegrini ammalati che portate con voi con lo stesso senso di solidarietà e di comunione cristiana con il quale avete guardato al vostro vescovo in questi lunghi mesi di malattia.
Se riuscirete a vivere così il pellegrinaggio di Lourdes, non pensando solo ai vostri problemi personali, ma allargando il vostro sguardo ed il vostro cuore ai bisogni di tutta l’umanità che vi circonda, esso diventerà un momento di profonda conversione interiore per tutti.